Stefano Zamagni introduce i Quaderni de Il Quinto Ampliamento

08/01/2019

Il risultato del primo anno di lavoro del Quinto Ampliamento è condensato nei Quaderni, un documento che raccoglie gli studi fatti durante i workshop su diversi temi:

  • "I fini Benefit: dalla Benefit Corporation alla Società benefit" di Francesco Marconi e Vittorio Traversa; 

  • "Impresa e Cultura oltre il Disastro" di Michele Trimarchi e Marco Peroni; 

  • "Per una Comunicazione Civile" di Elena Zambolin; 

  • "Blockchain per la gestione della filiera di Impresa" di Alessandro Giaume.

Stefano Zamagni ha scritto per noi l'introduzione a commento dei risultati dei workshop, che di seguito vi riportiamo in forma parziale.
Per leggerla interamente, o per scaricare i Quaderni, cliccate qui.

I Quaderni che l’Associazione “Il Quinto Ampliamento” offre ora al giudizio del lettore perseguono un obiettivo ben preciso: quello di portare nella sfera pubblica, facendone oggetto di ampio dibattito, il tema della responsabilità d’impresa in una stagione, come l’attuale, contraddistinta com’è dalla quarta rivoluzione industriale. È questo un fenomeno di portata epocale di cui già sappiamo molto, ma non ancora abbastanza se il fine che si vuole raggiungere è quello di porre le cosiddette tecnologie convergenti del gruppo NBIC al servizio dell’espansione della sfera di libertà della persona umana e del progresso morale della società.

Il tema dell’innovazione responsabile è l’ultimo anello di quella lunga catena che è la responsabilità sociale dell’impresa (RSI), una catena iniziata nel 1953, quando nel saggio Social responsability of businessmen, Howard B. Bowen scrisse che 

la responsabilità sociale degli uomini d’affari consiste nell’obbligo di perseguire quelle politiche e di adottare quelle linee di azione che sono desiderabili rispetto agli obiettivi e ai valori della nostra società. 

La novità che gli sviluppi più recenti della RSI hanno prodotto - consiste nella richiesta che anche l’attività innovativa dell’impresa vada assoggettata al giudizio morale. La novità non è di poco conto, solo che si pensi che la valutazione dell’innovazione è qualcosa di prospettico, un’iniziativa cioè che si adopera di congetturare quali conseguenze potranno derivare alla società di riferimento in seguito allo svolgimento dell’attività di innovazione.

Come è agevole comprendere, si tratta di un passo in avanti rilevante sul sentiero della responsabilità d’impresa. Infatti, non ci si limita a chiedere all’impresa di dare fedelmente conto di quel che fa, oltre che di tenere conto degli interessi legittimi di tutti i suoi stakeholders. Ciò che in più si chiede all’impresa, sempre che voglia dirsi responsabile, è che nel momento stesso in cui si adopera di dare inizio ad un qualche processo innovativo si sforzi di prevedere le ricadute potenziali dell’innovazione sulla comunità di cui è parte, e non solamente sulla propria performance aziendale.

Ragguardevole è la mole di iniziative attuate a livello internazionale volte a promuovere la cultura e le pratiche di RSI. E parecchi sono ormai gli standard di “Corporate social responsability” finora proposti. Si pensi a quelli promossi dall’ISO (International Standard Organization) 26000 e a quelli prodotti negli ultimi anni in ambito europeo: il progetto Q-Res italiano; il Values Management System tedesco; i progetti SIGMA e AA1000 inglesi, e altri ancora. Ciò deve essere certamente riconosciuto, ma 

si deve del pari riconoscere che la svolta radicale consiste nella transizione dalla responsabilità sociale dell’impresa alla responsabilità civile dell’impresa. 

Ritengo infatti che non sia più sufficiente che le imprese si impegnino nei confronti dei loro stakeholder – interni ed esterni- cercando di perfezionare e di applicare sempre più estesamente gli standard che hanno deciso di adottare. Infatti, essendo esse stesse una classe di stakeholder, peraltro assai potente, le imprese devono trovare i modi di dialogo argomentativo con i governi e la società civile organizzata secondo quel canone di governance noto come sussidiarietà circolare. La deliberazione approvata il 22 gennaio 2014 dal Consiglio d’Europa in merito alla “Responsabilità Sociale Condivisa” (Shared Social Responsability) si muove esattamente in questa direzione.

Generalizzando un istante è possibile interpretare la tendenza in atto a proposito del valore condiviso e della cittadinanza d’impresa come espressione particolare, eppure significativa, delle non poche novità che contraddistinguono gli studi recenti di organizzazione e gestione aziendale. Tra queste, non si può non accennare allo spostamento di attenzione dalla organizzazione come fenomeno circoscritto, analizzato principalmente in termini della sua dinamica interna, alle relazioni tra forme organizzative diverse (e quindi modelli di gestione diversi) ed il contesto socio-istituzionale di riferimento. Gli aspetti culturali, politici, sociali dell’ambiente in cui l’impresa opera non sono più considerati come qualcosa di irrilevante o di secondaria importanza dalla scienza contemporanea del management, anche se è vero che ancora troppo poco di questa novità importante è entrato nella pratica manageriale. Una pratica ancor’oggi dominata da mode manageriali che riflettono un mondo che ormai non c’è più: il mondo della società taylorista

Concepire l’impresa esclusivamente come una merce (the firm as a commodity) che può essere comprata e venduta a seconda della convenienza del momento e non invece come associazione (the firm as association) nella quale interagiscono, in modi  talvolta conflittuali, diverse classi di stakeholders, significa dimenticare che le imprese in quanto organizzazioni formali, alle quali la società assegna il compito di trasferire valori e di generare aspettative di progresso, sempre più caratterizzano il nostro panorama sociale , rimpiazzando o contaminando obsolete forme comunitarie di aggregazione. Quanto a dire che l’impresa, è, in questa epoca, uno dei principali luoghi di formazione del carattere umano; un’idea questa che già Alfred Marshall alla fine dell’Ottocento aveva efficacemente elaborato dall’alto della sua cattedra di economia a Cambrige (UK).

Non tenere in considerazione una tale verità significa ignorare l’enorme potere che chi guida l’impresa ha nel forgiare la qualità di vita di un numero immenso di persone e nel determinare le condizioni per la felicità pubblica.

L’impresa socialmente responsabile ha certamente conseguito traguardi importanti sul fronte della civilizzazione del mercato. Ma questi non bastano. Non si tratta più, infatti, di accontentarsi del rispetto da parte dell’impresa di regole del gioco già “date” da altri – le istituzioni economiche altro non sono nella sostanza che le regole del gioco economico. Quel che in più si richiede è che l’impresa, proprio in quanto giocatore, e membro influente del club del mercato, accetti di contribuire a riscrivere tutte quelle regole che fossero diventate obsolete oppure non capaci di assicurare la sostenibilità dello sviluppo umano integrale. Questa fu la grande intuizione di Adriano Olivetti.

Nel loro saggio, Acemoglu e Robinson (2012) opportunamente distinguono tra istituzioni economiche estrattive e inclusive. Le prime sono quelle regole del gioco che favoriscono la trasformazione del valore aggiunto creato dall’attività produttiva in rendita parassitaria oppure che spingono l’allocazione delle risorse verso le molteplici forme della speculazione finanziaria. Le seconde, al contrario, sono quelle istituzioni che tendono a facilitare l’inclusione nel processo produttivo di tutte le risorse, soprattutto di lavoro, assicurando il rispetto dei diritti umani fondamentali e la riduzione delle disuguaglianze sociali. Sulla scorta di un robusto apparato sia teorico sia storico-empirico, i due autori mostrano come il declino – fino al collasso – di una nazione inizia nel momento in cui le istituzioni estrattive prevalgono, fino a soffocarle, sulle istituzioni inclusive.

Ebbene, l’impresa civilmente responsabile è quella che si adopera, con gli strumenti a sua disposizione, per accelerare il passaggio da un assetto istituzionale estrattivo ad uno di tipo inclusivo. Ciò significa che non è più sufficiente, come invece è il caso con la nozione di responsabilità sociale, che l’impresa sia disposta a vincolare il raggiungimento del suo obiettivo al soddisfacimento di certe condizioni – prima fra tutte la condizione che impone di tener conto delle esigenze e della identità di tutte le classi di stakeholder. Quel che la nozione di responsabilità civile in più chiede è che il fine stesso dell’agire economico muti nel senso di tendere alla democratizzazione del mercato. Laddove l’impresa socialmente responsabile è quella che mira ad attuare la democratizzazione della propria governance – ad attuare cioè il c.d. democratic stakeholding – l’impresa civilmente responsabile si assegna in aggiunta l’obiettivo di concorrere a rendere democratico l’ordine di mercato.

La sfida che “Il Quinto Ampliamento” oggi cerca di raccogliere è quella di mirare alla democratizzazione del mercato. 

Ora, in una stagione come l’attuale, in cui il contratto è diventato il principale strumento di innovazione giuridica, una nuova fonte di diritto e non più una mera applicazione del diritto, l’impresa civilmente responsabile è quella che comprende che il mero rispetto di regole contrattuali che non discendano da un’autentica poliarchia, cioè a dire che non siano il risultato di un processo negoziale tra tipologie diverse di impresa, non è sufficiente ad assicurare la sostenibilità sociale ed etica del sistema  di mercato. È agevole darsene conto solo che si pensi che da oltre un quarto di secolo, il luogo principe del potere è nel mercato e dunque assai difficilmente la politica, da sola, può riuscire oggi a controllare e a dare una direzione al processo economico. Se non è il mercato stesso a democratizzarsi sarà difficile garantire in futuro un ordine sociale dove la libertà non è solo libertà di scelta, ma soprattutto libertà di poter scegliere (cioè capacità di scelta).

Si tratta dunque di ripensare, in chiave generativa, il ruolo dell’imprenditore nel nuovo contesto economico che si è venuto a configurare al seguito dei fenomeni della globalizzazione e della finanziarizzazione dell’economia. 

È ormai acquisito che l’azione economica, oggi, non può essere riduttivamente concepita nei termini di tutto ciò che vale ad aumentare il prodotto sperando che ciò possa bastare ad assicurare la convivenza sociale; piuttosto, essa deve mirare alla vita in comune. Come Aristotele aveva ben compreso, la vita in comune è cosa ben diversa dalla mera comunanza, la quale riguarda anche gli animali al pascolo. In questo, infatti, ciascun animale mangia per proprio conto e cerca, se gli riesce, di sottrarre cibo gli altri. Nella società degli umani, invece, il bene di ciascuno può essere raggiunto solo con l’opera di tutti. E soprattutto, il bene di ciascuno non può essere fruito se non lo è anche dagli altri.

L’impresa è oggi diventata, per la prima volta, un soggetto politico e non solo economico. Ecco perché è un agente di cambiamento. Va da sé che tale consapevolezza non è ancora diffusa tra le imprese italiane, perché continuano a soffrire di un grave complesso di inferiorità dovuto sia ad un certo retaggio culturale (“l’imprenditore è uno sfruttatore”) sia ad una scarsa preparazione culturale. Il progresso non è un mero cambiamento, ma è un cambiamento verso il meglio e quindi esso postula un incremento di valore. Dunque, il giudizio di progresso dipende dal valore che si decide di prendere in considerazione. Per l’economia civile, questo valore è, prima di tutto, la libertà positiva. Infatti, ama lo sviluppo chi ama la libertà. È questo il faro che orienta l’agire di “Il Quinto Ampliamento”.

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