Ne parliamo con il fondatore di Sloweb, Pietro Jarre.
Alla sesta edizione del Digital Ethics Forum (DEF) che si terrà dal 6 all’8 novembre tra Torino, Roma e il web, Sloweb tornerà a parlare a professori e studenti, professionisti, lavoratori e cittadini del tema attualissimo della sostenibilità del digitale.
Ne parliamo con il fondatore di Sloweb Pietro Jarre, che il Quinto Ampliamento ha già incontrato per parlare di responsabilità digitale d’impresa.
La fitta agenda di incontri prevede, tra l’altro, dibattiti sull’uso consapevole della tecnologia a partire dallo smartphone, sulle buone pratiche di impresa per la sostenibilità digitale e il digital wellbeing, su esperienze di uso etico della tecnologia a scuola e la presentazione dell’ultimo Osservatorio per il Consumo Digitale Responsabile sviluppato da Sloweb con il Movimento Consumatori.
"Noi di Sloweb siamo nei confronti della tecnologia degli entusiasti critici – ci spiega Jarre – Né infedeli, né fanatici, cerchiamo di essere lucidi nei confronti di modelli e strumenti, pervasivi del nostro quotidiano, che devono essere gestiti se vogliamo difendere i nostri diritti e le nostre libertà. È una questione di responsabilità e di consapevolezza storica. Nel dopoguerra l’entusiasmo per il progresso si traduceva in passione acritica per il petrolio e per la chimica, oggi ne misuriamo l’impatto e le conseguenze, domani potrebbe succedere lo stesso con gli smartphone e il web. Se vogliamo uno sviluppo sostenibile, dobbiamo creare dei modelli sani e delle regole”.
Il rapporto Draghi loda le ambizioni della GDPR europea sulla privacy e dell’AI Act (la legge europea sull’intelligenza artificiale), ma paventa che le regole rallentino lo sviluppo tecnologico europeo già molto indietro rispetto a concorrenti formidabili come gli Stati Uniti e la Cina. Il rischio – afferma - è una “lenta agonia” dell’Europa. Più concretamente la nuova intelligenza artificiale dei dispositivi Apple giungerà in Europa soltanto da aprile perché abbiamo norme più stringenti: non è un limite?
In realtà la prospettiva andrebbe capovolta. Direttive europee come il Green Deal, il GDPR, l’AI Act, ma anche quella sul Diritto alla Riparazione pongono le basi per uno sviluppo sostenibile (durevole, si dice bene in francese) e possono essere di esempio su scala globale. Altrimenti si rischiano gli sfracelli del turbocapitalismo, come nel caso di Boeing, che ha smesso di investire in ricerca e qualità e ora rischia il fallimento. Il problema è strutturale. Se io compro dei funghi al mercato, so che viene effettuato un controllo preventivo che garantisce che non mi facciano male, ma se compro ChatGPT oggi, non so se mi fa male. È un rischio che possiamo permetterci? C’è anche un modello intero di società e regole giuridiche in gioco. Yanis Varoufakis parlerebbe di Tecnofeudalesimo. Il Big Tech rischia di diffondere i modelli di potere della California di fine ‘800, dove chi arrivava con la forza e l’astuzia si prendeva tutto, il Far West in altre parole. Rischiamo di mandare a gambe all’aria diritti e libertà costruiti nei secoli con enormi sacrifici. Per di più ora che i rischi ambientali, sociali e perfino cognitivi sono sempre più misurabili e preoccupanti.
Nella prima giornata del DEF è previsto un incontro con il docente del Politecnico di Torino Juan Carlos De Martin che ha scritto “Contro lo smartphone. Per una tecnologia più democratica”, un testo che in realtà promuove un approccio critico allo strumento più diffuso nelle nostre vite…
E’ un esempio molto calzante dell’approccio critico che vogliamo promuovere. Noi non siamo contro la tecnologia, ma cerchiamo un approccio responsabile. Lo smartphone come – e in sinergia con - molti software e social media che veicola può dare “addiction”, dipendenza, come una droga. L’uso del cellulare può trasformarsi da compulsione a dipendenza e c’è già una letteratura internazionale sul tema che si interroga e mette in guardia anche dal pericolo che il cellulare e un’app come TikTok possono costituire per i più giovani. Ci sono grossi rischi cognitivi e sociali e ci sono anche pericoli ambientali enormi. Appena prima del Covid l’Onu calcolava che produciamo 50 milioni di tonnellate di spazzatura elettronica ogni anno e solo il 20% viene riciclato, con gli impatti enormi sull’ecosistema che possiamo immaginare.
Se ora imponiamo per legge l’accesso a certi servizi essenziali tramite lo smartphone, imponiamo al cittadino l’uso di una tecnologia escludente e peraltro privata, e rischiamo di privare lo Stato di prerogative indispensabili. Se i migranti o i senzatetto pensano innanzitutto al cellulare, è per bisogno primario. Bisogna stare tutti più attenti e costruire un sistema di regole che ci difenda.
Voi presentate anche buone pratiche digitali di impresa e auspicate la creazione di una filiera digitale responsabile che passi anche dal dato, che poi è l’impalpabile elefante nella stanza, perché si misura meno del device fisico, ma ha un impatto.
Molte grandi imprese stanno studiando modelli di impiego sostenibile del digitale, noi presentiamo diverse esperienze concrete che possono migliorare la gestione di un’istanza fondamentale, ma il centro deve essere sempre un approccio critico. Prendiamo il caso di una mail. Se devo scrivere a una persona che già mi conosce, è un grande spreco mettere il logo della mia ditta; se devo mandare un documento, meglio usare un link, e NON allegarlo alla mail, soprattutto se ho tanti destinatari…. Dobbiamo imparare a usare meglio il mezzo evitando un consumo di risorse del quale il pianeta alle prese con il cambiamento climatico non ha proprio bisogno. Qualche tempo fa una pubblicazione canadese parlava di “sobrietà digitale”. Visti gli impatti concreti della tecnologia, dovrebbe essere una direttiva strategica del nostro sviluppo. Le conseguenze di un modello di consumo illimitato in ambito digitale possono essere molto, molto severe. Noi di Sloweb promuoviamo buone pratiche di consumo digitale anche per promuovere il discorso della sostenibilità sul dato. In apparenza gli sconfinati archivi di informazioni che tutti produciamo e scambiamo sono impalpabili, ma in pratica hanno un impatto ambientale pesantissimo. Basterebbe disciplinare la comunicazione elettronica, asciugare le gallerie fotografiche dei cellulari, tagliare il logo dalle mail se non è necessario, ridurre i video, per ottenere risultati importanti. Gli stessi principi andrebbero applicati al web. Se il Big Tech statunitense deve promuovere un ricorso globale massiccio all’energia nucleare e al carbone per alimentare i server che ospitano l’intelligenza artificiale, è un problema di tutti. Serve chiedersi se e perché farlo, serve una presa di coscienza collettiva che si trasformi in azione politica, servono iniziative come le linee guida del World Wide Web Consortium (W3C) per realizzare siti e servizi web sostenibili, per un digitale “biologico”. Per una vera sostenibilità digitale servono il controllo e la consapevolezza. Anche per questo promuoviamo l’Osservatorio del consumo digitale responsabile con il Movimento Consumatori le cui indicazioni l’Arci ha deciso di inserire nel protocollo di sviluppo delle sue associate.
Intervista a cura di Giovanni Digiacomo