Molto più di un semplice whistleblowing. La vicenda accende l’interrogazione necessaria dei mercati sulla trasparenza e l’affidabilità delle nuove etichette sostenibili. Se gestisci 2 trilioni di dollari, il greenwashing non può bastare
Non è solo colpa di Desiree. Il tornado che ha colpito le quotazioni dell’asset manager tedesco DWS il 26 agosto 2021 precipitando i corsi da circa 42 euro a meno di 36, bruciando oltre un miliardo di capitalizzazione, è un segno dei tempi. È ora di riflettere sulla finanza sostenibile, anche la SEC, la Consob statunitense, ne discute da mesi; l’Europa procede su un percorso avviato da anni. Ma i temi che il caso DWS ha sollevato hanno aperto vaso di Pandora e si moltiplicano i dubbi su una sostanziale impreparazione dei grandi asset manager globali, dopo la raccolta di trilioni di dollari con il marketing di prodotti ESG. Il timore è che i big della finanza abbiano incamerato miliardi sfruttando etichette ESG sempre più vuote, senza concretamente applicare i principi a cui si appellavano nella loro promozione. Un report di Morningstar ha calcolato che i fondi ESG alla fine del primo trimestre 2021 hanno accumulato risorse per quasi 2 mila miliardi di dollari. Qualche domanda in più è inevitabile, anche perché il fantasma del “greenwashing” da sempre intorbida il dibattito sulla sostenibilità. Ma procediamo con ordine.
DWS, qualcosa di più di un caso di whistleblowing
Il 25 agosto 2021 il Wall Street Journal riportava che le autorità statunitensi avevano avviato indagini su DWS: l’ex responsabile della sostenibilità Desiree Fixler dichiara che il gestore controllato da Deutsche Bank sopravvaluta l’impiego dei criteri di sostenibilità nella gestione dei propri asset. Si mostrerebbe, insomma, più “sostenibile” di quanto non sia davvero.
La storia è stata pubblicata dallo stesso WSJ a inizio agosto. A Desiree Fixler è stato chiesto di lasciare l’incarico, dopo appena sei mesi, nell’aprile di quest’anno. Accusa DWS, un colosso da oltre 900 miliardi di dollari quotato a Francoforte, di avere distorto la rappresentazione delle proprie capacità di gestione con criteri ESG. È un’accusa molto grave: con i dati del 2020 pubblicati a marzo DWS ha dichiarato di valutare più di metà dei propri investimenti con criteri di sostenibilità. È in dubbio la sua credibilità e la sua strategia.
Ms. Fixler, ex impact investor ZAIS dopo esperienze in Merrill Lynch, JP Morgan, aveva avuto dubbi da subito. Aveva notato al suo arrivo che nel giugno del 2020 Wirecard, il colosso tedesco travolto quello stesso mese da una frode da 1,9 miliardi di euro, era inserito in un fondo ESG di DWS. Aveva un “rating di sostenibilità” B, il secondo migliore della scala, eppure due mesi prima un revisore assunto dalla stessa Wirecard aveva dichiarato di non potere verificare l’esistenza della cassa del gruppo. Solo a luglio il downgrade a F. DWS da aprile aveva alleggerito le posizioni, ma ne era uscita soltanto pochi giorni prima del collasso e ora in tribunale chiedeva un risarcimento.
Qualcosa, secondo lei, non aveva funzionato nei controlli e così la Fixler aveva deciso di confrontarsi con il management. Aveva così scoperto che il punteggio di Wirecard e di altri asset era deciso in DWS dallo “smart ESG integration tool”. A quanto pare non funzionava, in una presentazione al cda di inizio novembre la stessa Fixler aveva affermato che il tool non riconosceva neanche le compagnie che fatturavano con il carbone o con il fracking, eppure in quei mesi DWS dichiarava di essere all’avanguardia sul fronte ESG, di avere strumenti capaci di rispondere immediatamente alle criticità.
Era finita con la richiesta alla Fixler di lasciare l’incarico. “L’azienda ha bisogno di un maggiore impulso in questo ambito”, recitava un memo interno.
La storia però è finita sul Wall Street Journal, all’attenzione delle Authority statunitensi e si è tradotta in un crollo delle quotazioni della società tedesca.
Il 26 agosto DWS ha confermato in una nota i dati riportati nel bilancio 2020 sugli asset ESG, ha ribadito di lavorare sulla sostenibilità da oltre 20 anni e ha respinto le accusa della ex dipendente, senza volere entrare nel merito delle questioni legali.
Sui mercati però si era ormai aperto il dibattito, si moltiplicano i dubbi sull’affidabilità di quei criteri di sostenibilità sbandierati dalle case di investimenti e ricoperti d’oro dagli investitori globali.
È l’occasione di un giro di vite, di mettere qualche punto fermo, anche perché l’investimento sostenibile nasce come forma di difesa da nuove forme di rischio e se l’etichetta ESG si svuota, allora il risparmiatore/investitore rischia la frode e le autorità che controllano i mercati devono intervenire.
Quella che irrompe nei mercati è molto di più dell’ennesima soffiata di un whistleblower: è la sfida della complessità.
ESG, il caso DWS al centro del dibattito US-UE sulle regole
Trilioni di dollari di investimento devono potersi appoggiare su una reportistica affidabile, evoluta e condivisa, tutte cose molto difficili da sviluppare nell’ambito della sostenibilità. L’Europa ci lavora da tempo. Nel 2019 la Commissione Europea ha messo in campo il concetto di “doppia materialità” nelle linee guida alla reportistica non finanziaria. Si chiedono alle imprese indicazioni precise sulla “materialità finanziaria”, ossia sui fattori che influenzano il tradizionale valore economico della società, e sulla “materialità d’impatto”, che invece identifica l’impatto sociale e ambientale dell’impresa.
Questa “materialità seconda” è la novità che porta le imprese a rispondere del loro impatto ESG e del confronto con gli stakeholder. La GRI (Global Reporting Initiative) ha sviluppato metriche più compiute e standard molto seguiti in Europa che portano le imprese a confrontarsi con queste nuove istanze. Tutto un pensiero evolutosi nel cuore del Vecchio Continente che ora si confronta con la scala globale della finanza.
Negli Stati Uniti c’è un contesto del tutto diverso. La vecchia amministrazione Trump aveva tutt’altro approccio e flirtava con il negazionismo del cambiamento climatico, ma con l’ascesa di Joe Biden alla Casa Bianca viene insediato alla guida della SEC, l’autorità di vigilanza sui mercati USA, Gary Gensler, che vuole avviare un nuovo corso e sviluppare nuove metriche per gli investimenti ESG, almeno sul piano climatico. A marzo la SEC incardina una Task Force ESG nella divisione Enforcement. L’obiettivo è chiudere il gap informativo e regolamentare sulla reportistica ambientale. Non è semplice. Se sulla governance, il bagaglio di esperienze della SEC è ampio, il “Social” e l’”Environment” sono assai più complicati e l’Authority potrebbe anche non avere gli strumenti legali per intervenire in questi ambiti. Senza considerare che il capitalismo finanziario statunitense non ha mai amato “lacci e lacciuoli” per vari motivi. C’è la commissaria SEC Allison Herren Lee che si impegna nell’aggiornamento della guidance sulle dichiarazioni societarie in materia di cambiamento climatico (risaliva al 2010), ma anche la commissaria Hester M. Peirce che paventa che un set rigido di regole di sostenibilità imbrigli le forze creative del mercato (gli spiriti animali di Keynes?). Un regime di metriche ESG per rispondere a molteplici stakeholder e una disclosure basata sul portatore di interesse secondo lei espanderebbe troppo il potere legale della SEC, imporrebbe nuovi costi alle società quotate, renderebbe meno attraente il mercato dei capitali, distorcerebbe l’allocazione del capitale e minerebbe il ruolo degli azionisti nella corporate governance. Fra la proposta di adozione delle regole europee o l’affidamento a un set internazionale sviluppato da un organismo internazionale come l’IFRSF (International Financial Reporting Standards Foundation), la Peirce preferisce un passo indietro da vincoli che giudica potenzialmente contrari alla natura del capitalismo finanziario Usa.
A giugno sul tema torna anche il commissario Elad L. Roisman che chiede interventi legislativi del Congresso senza i quali la SEC non può intervenire in nuovi ambiti. Roisman si chiede anche se certi monitoraggi non spettino ad altri soggetti, per esempio l’Agenzia per la protezione dell’ambiente (EPA) pe le questioni ambientali. La SEC, si chiede Roisman, può comprendere la ‘materialità’ di obiettivi di investimento che esulano dalla tradizionale valutazione del rapporto rischio/rendimento?
I dubbi insomma non mancano e riflettono anche la tradizionale contrapposizione su questi temi tra repubblicani e democratici negli States, ma il percorso della nuova SEC di Gensler sembra tracciato.
Il 1° settembre il presidente della SEC Gary Gensler ha affermato di fronte al Comitato del Parlamento Europeo per gli Affari Economici e Monetari di aver chiesto alla sua Autorità di sviluppare una proposta di regole sui rischi collegati al clima, ai lavoratori e alla cybersecurity.
“Molti fondi si qualificano come ‘verdi’, ‘sostenibili’, ‘a bassa impronta carbonica’ e così via. Ho chiesto al mio staff di rivedere le pratiche attuali e valutare delle raccomandazioni sulle dichiarazioni dei gestori dei fondi in merito ai criteri e i dati che impiegano per commercializzarsi come sostenibili”. Un ponte di sostenibilità sull’Atlantico o la consapevolezza che il monitoraggio dell’industria finanziaria transnazionale deve essere per forza globale. Di fatto un passo avanti in direzione dell’elaborazione di standard condivisi.
Il caso DWS solo uno dei dubbi agostani sulla finanza sostenibile
Allora il caso DWS non stupisce. Le pressioni si moltiplicano nei giorni, l’attenzione cresce. Nell’agosto del 2021 Tariq Fancy, ex responsabile degli investimenti di BlackRock (il maggiore asset manager del mondo), esprime nel suo “Diario segreto di un investitore sostenibile” dubbi profondi sulla natura della finanza ESG: e se il più grande fenomeno della finanza contemporanea fosse solo un pericoloso placebo dannoso per l’interesse pubblico? Una distrazione dall’esigenza di una riforma sistemica davvero capace di modificare lo status quo e ridurre le crescenti divergenze economiche e sociali?
Sempre nell’agosto del 2021 InfluenceMap, un gruppo di analisi scientifica sul clima, mette sotto esame 753 fondi azionari con 330 miliardi di dollari di asset commercializzati come ESG o “verdi” e ne verifica l’adesione ai principi dell’Accordo di Parigi e l’intensità carbonica. Il 71%, ossia 421 con asset per 256 miliardi di dollari, non rispetta gli obiettivi climatici dell’Accordo di Parigi.
A fine agosto Christiana Figueres, la ex segretaria esecutiva dell’United Nations Framework Convention on Climate Change, lancia un duro atto d’accusa ai fondi sovrani. Gestiscono bene 10 mila miliardi di dollari, ma rischiano di finire dal lato sbagliato della storia se non cambiano subito le strategie. Secondo la donna che ha presieduto gli accordi sul Clima di Parigi i fondi sovrani stanno soltanto sfruttando le opportunità economiche derivanti dalla decarbonizzazione, ma non stanno canalizzando i trilioni di dollari raccolti in strategie per il contrasto del cambiamento climatico, ma solo in tattiche di massimizzazione del proprio ritorno economico.
Qualche dubbio è insomma ormai inevitabile.
Giovanni Digiacomo - Giornalista finanziario