Il nuovo governo Draghi sarà sostenibile?

12/03/2021

E se la sostenibilità dell’Italia non fosse più soltanto la gestione del debito pubblico?

La speranza di far ripartire un Paese piegato dalla pandemia con un piano attento ad ambiente, comunità ed efficienza semina diffidenza in un Paese cinico come il nostro.
Un Paese a misura di cittadino, attivo nella transizione ecologica, operoso nel contrasto delle disuguaglianze, con un’idea ambiziosa di futuro. Il nuovo governo di Mario Draghi promette molto. Sarebbe anche facile dire che nessun Paese è nemico dell’ambiente, se di recente Trump non avesse impedito in tutti i modi alla California di abbassare i limiti delle emissioni delle auto e non fosse uscito dagli Accordi di Parigi.
Efficientamento della pubblica amministrazione, contrasto al cambiamento climatico, difesa dei cittadini sono il mantra di qualunque governo da decenni. Ma allora cosa potrebbe cambiare con Draghi, al cui governo oltretutto gli analisti non concedono più di un anno di vita?
L’esecutivo dell’ex numero uno della Bce ha una carta in più ereditata dall’esecutivo precedente insieme a uno scenario drammatico: un ricco piatto di 209 miliardi di euro, fra prestiti e stanziamenti, condizionati in massima parte proprio dall’attuazione di politiche per la transizione ecologica e digitale, oltreché tese a rafforzare la resilienza.
Draghi lo sa, come sa di avere nella cassetta degli attrezzi la forza coesiva di un governo di unità nazionale dove tutti sono “responsabili”: fare l’opposizione a se stessi è un duro lavoro (la Meloni potrà mettere i puntini sulle i). Il percorso è tracciato, gli appetiti sono stati amministrati, è partito il viaggio nel futuro all’insegna della sostenibilità. Sperando che non resti uno spot. 

Proteggere il futuro dell’ambiente, conciliandolo con il progresso e il benessere sociale, richiede un approccio nuovo: digitalizzazione, agricoltura, salute, energia, aerospazio, cloud computing, scuole ed educazione, protezione dei territori, biodiversità, riscaldamento globale ed effetto serra, sono diverse facce di una sfida poliedrica che vede al centro l’ecosistema in cui si svilupperanno tutte le azioni umane.

Mario Draghi

Super-Mario, forse per sfuggire all’insopportabile odore di incenso che cercava di camuffare un fallimento della politica con rari precedenti, ha messo l’etichetta “sostenibile” sul progetto per l’Italia fin dal discorso programmatico. Al punto che l’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile ha contato 14 obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Onu (SDG) nel programma del nuovo primo ministro. D’altronde è proprio dall’ASviS, di cui era portavoce, che viene Enrico Giovannini al Ministero delle infrastrutture e della mobilità sostenibili.

Il nuovo premier ha messo tra le priorità “la transizione ecologica; le infrastrutture per la mobilità sostenibile; la formazione e la ricerca; l’equità sociale, di genere, generazionale e territoriale; la salute e la relativa filiera produttiva”.
Ci sono impegni chiari sull’incentivazione della produzione dell’energia da fonti rinnovabili, sulla riduzione delle emissioni, sulla formazione a tutti i livelli, sulla lotta alle discriminazioni, sulla riforma sanitaria, sul contrasto della disoccupazione, della povertà e delle disuguaglianze sociali. Draghi ha persino citato l’indice di Gini sulle disparità di reddito.

I numeri di questa crisi non lasciano facili alibi: oltre i 4 milioni di ore di cassa integrazione, almeno 444 mila posti di lavoro persi (e le donne pagano lo scotto peggiore con 311 mila posti perduti e si confermano le più colpite insieme a giovani e precari), 4 miliardi di ore di integrazione salariale per ben 7 milioni di lavoratori. Il tutto mentre permane la spada di Damocle della fine del blocco dei licenziamenti.

Il primo imperdibile appuntamento sarà entro il 30 aprile: entro quella data Draghi dovrà presentare il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) se vuole ottenere i fondi del Next Generation EU (rimasto nelle cronache come Recovery Fund). Lo scopo principale del piano europeo per la nuova generazione è finanziare una rinascita che renda “le economie europee più sostenibili, resilienti e meglio preparate per le sfide e le opportunità delle transizioni ecologiche e digitali”.

Così Draghi ha creato un Ministero della Transizione ecologica (Mite) e lo ha affidato a Roberto Cingolani, un fisico di esperienza internazionale già a capo della Tecnologia e dell’Innovazione di Leonardo. L’ex Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare (questo il nome precedente del dicastero che ne chiarisce e forse delimita le funzioni) dovrà raccogliere, tra l’altro, la sfida europea del Green Deal che chiede un taglio delle emissioni di CO2 del 55% entro il 2030 e la neutralità climatica entro il 2050. Scadenze dietro l’angolo. Cingolani ne è consapevole: “È una sfida imponente, e tutto il Governo è impegnato a lavorare per portarla a termine. Abbiamo davanti a noi poco tempo per vincerla, ce lo dicono i dati scientifici sui cambiamenti climatici”.

La nascita del MiTE, il Ministero della transizione ecologica è parte di quel percorso di costruzione che vede il governo intero impegnato nella realizzazione di questa nuova visione. Tutte le politiche afferenti a questo obiettivo primario faranno riferimento al MiTE: quella energetica, delle emissioni, lo sviluppo sostenibile, la mobilità green, le politiche di contrasto ai cambiamenti climatici.

Roberto Cingolani

L’attribuzione delle politiche di sostenibilità a un dicastero intitolato alla transizione ecologica potrebbe tradire una visione vetusta, in cui la sostenibilità è soltanto contrasto al cambiamento climatico, la E appena dell’acronimo ESG (Environmental, Social, Governance), che sintetizza le maggiori istanze contemporanee della sostenibilità. Ma va probabilmente abbinata all’altra transizione dell’organigramma ministeriale: il ministero per l’Innovazione e la transizione digitale affidato all’ex CEO di Vodafone Vittorio Colao.
Non a caso le due transizioni di cui parla il Next Generation EU sono quella ecologica e digitale. Due percorsi che si incrociano ogni giorno di più con l’alto contenuto tecnologico dei più recenti strumenti di gestione del territorio. Alla digitalizzazione nell’epoca dello smartworking imposto dalla pandemia non si sfugge.
Il drammatico ritardo nel contrasto del digital divide italiano consegna al governo uno dei dossier più scottanti: quello della rete unica che dovrebbe nascere dall’incontro delle infrastrutture di Telecom Italia e di CDP. È un problema di sostenibilità palpabile quando si pensa alla marginalizzazione degli studenti costretti alla DAD in aree non adeguatamente coperte dalla rete. La cittadinanza digitale oggi è più una necessità, che un’opportunità.

Novità anche per l’ex Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, che diventa Ministero delle infrastrutture e della mobilità sostenibili e incorpora un approccio nei propri attributi. Alla sua guida, come detto, Enrico Giovannini, economista, statistico e accademico, uno dei numi tutelari della sostenibilità in Italia e – come detto –già portavoce dell’ASviS presieduta da Pierluigi Stefanini (presidente anche di Unipol).

Il cambio di nome corrisponde ad una visione di sviluppo che ci allinea alle attuali politiche europee e ai principi del Next Generation Eu. L’obiettivo è promuovere una forte ripresa economica del Paese che sia sostenibile anche sul piano sociale e ambientale
Enrico Giovannini

Giovannini ha già avuto un ruolo di primo piano nell’introduzione dell’indicatore BES (Benessere Equo e Sostenibile) dell’Istat, una sorta di indice del benessere che punta oltre la statistica del Pil con l’aiuto dei 17 obiettivi di sostenibilità dell’Onu. In un Paese in forte ritardo infrastrutturale e con una morfologia dannata che finora ha premiato il trasporto su gomma con evidenti impatti sull’ambiente e sullo sviluppo economico non mancherà lavoro al nuovo ministro. Basti pensare ai 9,5 miliardi che il rinnovo del parco mezzi del trasporto pubblico locale potrebbe chiedere secondo l’Asstra. L’Asvis calcola un fabbisogno di infrastrutture di trasporto rapido di massa per 33 mld, attribuisce al rinnovo del parco veicolare un costo di 10,3 mld, quindi 9,2 mld alla richiesta per la mobilità elettrica, 7,6 mld a ciclabilità, pedonalità, sicurezza e intermodalità, 1,6 mld a incentivi all’acquisto di biciclette e mezzi di micromobilità. Fanno in tutto 61,7 miliardi di euro che il PNRR potrebbe finanziare in dieci anni. Prima bisognerà però disinnescare anche il dossier Autostrade, con l’ingresso anche in questo caso di CDP. Il dramma delle infrastrutture italiane va però ben oltre la mobilità: in questo Paese si muore di pioggia; le frane, le alluvioni, l’abbandono del territorio o la sua cementificazione incontrollata sono cronaca quotidiana ed eredità storica e il tandem Cingolani-Giovannini avrà senz’altro bisogno di aiuto.

Una particolarità altrettanto italiana è nel mattone. Siamo l’unico Paese d’Europa con il 70% di immobili in mano a privati, non pubbliche amministrazioni o fondi di real estate, ma cittadini. L’impronta carbonica del tubo di scappamento non è molto distante da quella della caldaia condominiale e l’impatto di un parco immobiliare vetusto ha già imposto provvedimenti straordinari come il Bonus 110% che punta alla riqualificazione e alla promozione della generazione diffusa da fonti rinnovabili. Afferisce al Ministero dello sviluppo economico guidato da Giancarlo Giorgetti, che eredita dossier roventi e annosi a un tempo, dall’Ilva all’Alitalia, da Whirlpool all’Industria Italiana Autobus, da Acciai Speciali Terni al Mercatone Uno. Migliaia e migliaia di posti di lavoro a rischio e intere filiere che con un collasso potrebbero condizionare il sistema produttivo nazionale e interi territori. È un problema di sostenibilità anche questo.

Come lo è l’efficientamento della pubblica amministrazione affidato a Renato Brunetta (Ministro per la pubblica amministrazione appunto), che dovrà mantenere la promessa di una digitalizzazione della macchina pubblica resa drammaticamente necessaria, ma anche più vicina, dalla pandemia. Se si vogliono costruire autostrade e linee ferroviarie, scuole e centrali di generazione si deve comunque passare dalla burocrazia nazionale e locale. Il Covid-19 ha dimostrato drammaticamente l’importanza di uno Stato che funziona su temi come la cassa integrazione, i ristori, le moratorie e altro ancora.

L’Italia è terz’ultima in Europa per durata dei processi civili, con 514 giorni di durata media. La prescrizione (che in questi decenni non ha migliorato le cose, ma è stata riformata dall’ultimo governo) divide profondamente le forze politiche che compongono l’attuale maggioranza. L’Europa chiede da anni di porre fine alla lentezza della giustizia (un’incertezza del diritto nemica degli investimenti) e di efficientare la pubblica amministrazione per creare quel clima favorevole al business che sarebbe una delle prime riforme strutturali chieste al Bel Paese. Era nel novero di quelle che Draghi periodicamente chiedeva dall’Eurotower quando si rivolgeva ai Paesi Membri.
Da notare anche l’approccio inclusivo del nuovo governo che cerca di rafforzare il contrasto delle discriminazioni e diseguaglianze. Sono ministre con portafoglio Maria Carfagna (Il sud e la coesione territoriale), Fabia Dadone (Politiche giovanili), Elena Bonetti (Pari opportunità e la famiglia) ed Erika Stefani (Disabilità). Dovranno senz’altro coordinarsi con altri ministeri e dicasteri, ma il ventaglio delle deleghe lascia supporre una certa attenzione per temi ritenuti in passato secondari e perennemente trascurati (come i dati sulla disoccupazione femminile dimostrano). Anche se mancano espliciti incarichi sul delicato fronte dell’immigrazione (gli Affari Esteri e Cooperazione internazionale lasciati a Luigi Di Maio?), divisivo forse, dibattuto e importante senz’altro.

 

Non sarà facile, ma di certo Daniele Franco, il nuovo ministro dell’Economia ex direttore generale della Banca d’Italia ed ex ragioniere generale dello Stato, potrà fornire delle chiavi di lettura importanti. A lui, che ha appena portato a termine il collocamento del primo BTP green d’Italia, toccherà risolvere questioni spinose, come la privatizzazione di MPS (forse con le nozze con Unicredit) e la gestione di una ricrescita felice che un debito pubblico già stimato oltre il 160% del Pil rischia di zavorrare negli anni a venire.

I primi due indispensabili appuntamenti di Draghi saranno quello con l’Europa per il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza e quello con la campagna vaccinale (per il quale già sta muovendo leve europee e non solo). Nel mezzo del guado la fine del blocco dei licenziamenti che potrebbe diventare facilmente emergenza sociale e politica. Super-Mario ha già detto che intende difendere i lavoratori, non necessariamente i posti di lavoro in attività senza futuro. Un’acrobazia che richiederà una riforma degli ammortizzatori sociali sulla quale il governo già discute con le parti sociali. Un sistema di formazione e di politiche attive del lavoro sarà necessario per scongiurare il patatrac. A fronte di obiettivi ad almeno 7 anni, come la durata del Next Generation EU e del bilancio europeo, e di target ultradecennali come quello del Green Deal europeo, le emergenze di quest’anno 2021 sembrano assai impellenti.

Siamo di fronte a una crisi generale della domanda aggregata. Keynes avrebbe suggerito di scavare buche per poi riempirle. Draghi dovrà anche riporci un seme.

Giovanni Digiacomo - Giornalista finanziario