Il Paradosso di Chesterton

20/12/2018

Basil Grant è un personaggio creato dal noto scrittore inglese G.K. Chesterton.

È un giudice costretto a lasciare l’incarico perché accusato di aver perso il senno. Infatti condanna la gente per delitti di cui mai si era sentito parlare in un’aula di giustizia, come egoismo illimitato, mancanza di senso dell’umorismo e deliberata indulgenza alla morbosità.

Ecco le parole con le quali Grant giustifica il suo modo eccentrico di amministrare la giustizia:

"Scoprii che come giudice non potevo essere di alcuna utilità. E allora decisi di offrire i miei servigi a titolo personale, come un giudice puramente morale, chiamato a dirimere contenziosi puramente morali. La gente si presentava davanti a me per essere giudicata non per inezie pratiche (che in realtà non interessano a nessuno), come aver commesso un omicidio o essere in possesso di un cane senza averne la licenza. I miei criminali erano giudicati per quegli illeciti che rendono davvero impossibile la vita sociale. Venivano processati davanti a me per egoismo, per insopportabile orgoglio, per maldicenza, per taccagneria nei confronti degli amici e dei dipendenti. Evidentemente questo tribunale non aveva nessuno strumento di coercizione. L’applicazione della pena dipendeva totalmente dall’onore delle signore e dei gentiluomini coinvolti nel caso, compresi i colpevoli. Ma se sapeste con quale precisione i nostri ordini sono sempre stati eseguiti vi meravigliereste." (G.K. Chesterton, Il club dei mestieri stravaganti, Leardini, Macerata, 2013).

 È chiaro il messaggio.

Esistono illeciti che rendono davvero impossibile la vita sociale, e questi non sono le inezie di natura pratica di cui di solito si occupano i tribunali. Il paradosso di Chesterton, che estende il campo della giustizia ben al di là dei confini che siamo soliti attribuirle, ha in realtà radici antiche. Lo spiegava già Cicerone:

Se si tolgono dalla società la beneficenza, la liberalità e la bontà, viene a mancare del tutto anche la giustizia.

E prima ancora aveva colto il punto la cultura greca. Nel Protagora, Platone ci fornisce il senso del mito di Prometeo (“Colui che riflette prima”) e del fratello Epimeteo (“Colui che riflette dopo”). Prometeo certamente sbaglia a violare la legge rubando il fuoco agli dei; ma lo fa per aiutare lo sprovveduto fratello. L’ira degli dei lo punisce con un pesante supplizio, ma poiché ha agito per generosità disinteressata, il tormento ha un termine. (Eracle lo libererà con il tacito consenso di Zeus). Non così per Tantalo e Sisifo, per i quali la pena è eterna perché, pur molto intelligenti, portano doni agli uomini per motivi puramente egoistici.

Stefano Zamagni