“Io ne ho fatto parte” dice il signore e io comprendo il peso delle sue obiezioni. Nella luce di vetro delle Officine H ho capito che la direzione è quella giusta.
La Liguria è una terra obliqua appoggiata di straforo dove spazio non c’è. Con i monti nello zaino, si specchia nel mare e crede sia il mondo a essere un riflesso di sé. Raggiungere Ivrea da qui sotto significa arrampicarsi, passare l’Appennino, scoprire la pianura. Lasciarsi il mare alle spalle. Avere spazio da immaginare, perché il mare è immenso e pieno, ma la pianura ha dentro così tanto tempo che in qualche modo lo devi ingannare.
“Ho trovato Ivrea appesa alla luce ferma delle mattinate di pianura.
Ho sbagliato strada al primo colpo e riavvolto l‘asfalto sotto le ruote per infilare via Jervis al punto giusto.”
Dopo Ovada, dopo Casale, con Torino come eterno presagio e Aosta come rimbalzo, Ivrea occupa uno spazio che mai mi son preoccupato di definire, distante almeno due vite dalla Liguria. “Benvenuti in Canavese, zona di turismo d’eccellenza” dice il cartello d’autostrada; tiro dritto. Mi sono occorse quasi tre ore di un venerdì mattina per raggiungerla, un po’ per lavoro e un po’ per passione. L’ho trovata appesa alla luce ferma delle mattinate di pianura. Ho sbagliato strada al primo colpo e riavvolto l‘asfalto sotto le ruote per infilare via Jervis al punto giusto.
Fonte immagine: Wikipedia, Autore: Laurom
Da una parte all’altra dell’immenso rammendo che è lo stabilimento della Olivetti. Da una parte la città, dall’altra l’altra città. Gli spazi della fabbrica non a dividere, ma a unire il residenziale e il produttivo; la storia e il futuro; l’Ivrea che già c’era e quella immaginata e voluta da Olivetti, cresciuta insieme alla sua azienda. Le Officine H sono una cattedrale, un gigantesco spazio illuminato a vetro che mi accoglie. Son qui per prendere parte a Pausa Pranzo, evento di lancio dell’associazione Il Quinto Ampliamento.
Abbiamo una possibilità di costruire un’economia diversa? Una strada che riconduca le imprese al senso stesso di quello che fanno la possiamo trovare? C’è una sola economia o è possibile un’economia civile? E questa economia civile, poi, cos’è? Chi la pratica, magari senza saperlo? Ascolto il punto di vista degli esperti su questi temi, talvolta rimango convinto, altre mi affaccio su prospettive che non avevo considerato.
“Scrivere, immaginare e poi vedere che le parole hanno un corpo:
é quasi come incidere sulla realtà. Una vertigine di senso pratico, affare d’architetto, da ingegnere.”
Conosco bene la giornata. Mentre altri si preoccupavano di dare vita all’associazione e costruire il programma, io ne ho scritto sul sito internet. Per mesi. Conosco i temi che tratteranno i relatori, l’ordine degli interventi, i curricula di chi parlerà. Scrivere, immaginare e poi vedere che le parole hanno un corpo: è quasi come incidere sulla realtà. Una vertigine di senso pratico, affare d’architetto, da ingegnere.
Di tanto in tanto, mi assento dalla sala principale e mi siedo al tavolo del punto informazioni per dare il cambio a qualche collega, controllare la mail, sbrigare qualche piccolo lavoro che non può aspettare.
Mentre sono intento a rispondere a un cliente cui non far conoscere la pazienza, un signore si avvicina al tavolo e inizia a sfogliare i depliant informativi. Non distolgo lo sguardo dallo schermo del computer, ma sento la mia collega rivolgersi all’uomo, che intanto sorseggia un caffè.
“Vorrei capire cos’è questo Quinto Ampliamento…” lascia sospesa la frase.
I punti di sospensione si possono quasi toccare e, sotto di loro, il sospetto.
“Possiamo esserle d’aiuto?”
“Vorrei capire cos’è questo Quinto Ampliamento…” lascia sospesa la frase. I punti di sospensione si possono quasi toccare e, sotto di loro, il sospetto.
“È un’associazione appena nata che si propone di stimolare un dibatto sulle possibilità di seguire un nuovo modello di economia, mutuandolo da tradizioni ed esperienze italiane…” la mia collega inizia la spiegazione scolastica.
“Come Olivetti” conclude lui, anticipando i tempi. “Peccato che di là qualcuno dica un po’ di scemate.”
Alzo lo sguardo. Il signore hai capelli bianchi, la faccia pulita, un paio di occhiali sottili dal profilo dorato. Le tasche della giacca non sono abbastanza profonde per la sua schiettezza
Giochiamo in difesa: “Sa, siamo all’inizio. Non è facile introdurre argomenti così…”
“Lo capisco, ma cercate di capire anche voi: io qui dentro c’ero quando tutto funzionava a gonfie vele. E nell’85 ho capito che sarebbe andato tutto gambe all’aria…”
E così scopriamo che il signore aveva raggiunto le Officine H incuriosito dal tema dell’incontro e che per lui quella è casa. Una carriera in Olivetti: dal primo impiego alla pensione. Cinque minuti per passare dalla laurea in Informatica all’Università di Pisa alla carriera in un’azienda che ha saputo fare sognare e immaginare.
“Tutto quello che c’era qui intorno funzionava,
quello che ho sentito raccontare io l’ho visto.
Ne ho fatto parte.”
Una vita, la sua. E insieme quella di una città.
“Sono arrivato a Ivrea il giorno dopo la laurea. Dieci borse di studio dedicate a laureati della mia facoltà. E poi mi sono fermato qui. Sono 42 anni.”
Una vita, la sua. E insieme quella di una città.
“Tutto quello che c’era qui intorno funzionava, quello che ho sentito raccontare io l’ho visto. Ne ho fatto parte.”
“Ne ho fatto parte” dice proprio così. Questo mi pare giustifichi le sue obiezioni.
“Il rischio è guardare troppo indietro, quando invece serve uno scatto in avanti. Ci sono problemi che sono già qui e pochi li tengono in considerazione. Davvero.” In quel davvero c’è il significato di tutto il suo discorso.
“Quest’azienda, che non era solo un’azienda, l’hanno smontata pezzo a pezzo. Io ero dentro e osservavo, capivo. Nell’85 mi sono detto: “Finisce tutto”. E tutto perché il profitto, il profitto è l’unica cosa che consideriamo.”
“Lo scatto culturale è proprio quello che vorremmo” mi sento di dire.
Annuisce, non troppo convinto. In un silenzio imbarazzato probabilmente avverte di essere stato troppo schietto, di aver lasciato troppo spazio alla disillusione che gli ribolle dentro.
“Posso chiederle da dove viene?” provo a sgonfiare la bolla in cui ci siamo immersi.
“Sono di Spezia.”
Dice così, esattamente così. “Di Spezia” lo dice solo chi da lì viene, perdendo nella familiarità l’articolo che l’italiano “della Spezia” prevede.
“Anche io” rispondo.
L’entusiasmo finisce qui. Siamo fatti così, basta riconoscersi.
Deve essere stato un sogno grandissimo, quello di Olivetti.
Penso ai 42 anni lontano dal mare, alla vita costruita in pianura, a montagne di sfondo che non siano le Apuane con il loro marmo: mi immedesimo nel suo racconto con una diversa consapevolezza. Sento addosso le sfumature. Deve essere stato un sogno grandissimo, quello di Olivetti.
Qualche piccolo convenevole, parole di cortesia e poi il signore si allontana.
La collega si gira verso di me e, ridendo, mi dice: “Tutti così, voi?”
Rido amaro. “Liguri, siamo liguri. La pianura non ci cambia.”
Però ci intendiamo di orizzonti e quelli buoni li sappiamo riconoscere e, se c’è da navigare, navighiamo.
“La rotta è quella giusta” penso mentre, al volante, torno a casa a fine giornata.
È solo l’inizio del viaggio.