L’Economia Blu vale più del Pil italiano, dal mare la sussistenza di 1,5 miliardi di persone, ma è un patrimonio sempre più a rischio, tra sprechi e fragilità, sovrasfruttamento e illegalità
C’è il rischio che non basti più neanche il mare.
Nell’ottobre 2012 il relatore speciale dell’Onu sul diritto all’alimentazione Olivier De Schutter definiva l’”Ocean Grabbing” una minaccia alimentare globale. Oscuri accordi di accesso danneggiavano già i pescherecci minori, battute di pesca non segnalate e incursioni in acque protette sottraevano risorse vitali alle popolazioni locali. L’Ocean Grabbing è lo sfruttamento indiscriminato dell’oceano, un neologismo sul più noto fenomeno del Land Grabbing, una questione globale, economica, sociale e ambientale. È il rischio che l’industrializzazione della pesca e lo sfruttamento intensivo degli oceani spezzi l’equilibrio del patrimonio ittico globale portandoci tutti a un punto di non ritorno. Per capire cosa succede forse conviene partire dal denaro.
Ocean Grabbing, quanto vale l’economia blu
Il World Fund for Nature (WWF) ha calcolato in 2,5 trilioni di dollari il valore di beni e servizi derivanti dagli ambienti oceanici o costieri. Appena dietro il Pil del Francia e più del Pil italiano.
Ma cosa vuol dire in pratica?
Il pescato è la maggior fonte di proteine per circa 1,5 miliardi di persone, quasi un essere umano su cinque. Le persone che ogni anno mangiano pesce sono però circa 3,3 miliardi. Oltre il 70% della superficie terrestre è occupata da acque (al 97% oceani), l’acqua sul pianeta è stimata in circa 1.400 milioni di miliardi di metri cubi.
Nel 2018 la produzione globale di pesce è stata di 179 milioni di tonnellate. Il venduto valeva circa 401 miliardi di dollari. Quasi la metà del pescato e più della metà del valore veniva dall’acquicoltura (82 milioni di tonnellate, $ 250 miliardi). Le persone direttamente impiegate nel settore sono quasi 60 milioni, il 14% è donna. Circa 2 terzi sono pescatori, il resto lavora nell’acquicoltura. L’85% di questi lavoratori è in Asia, il 9% in Africa, il 4% nelle Americhe. La Cina è il numero uno incontestato del settore con il 35% della produzione globale di pesce, il resto dell’Asia le sta dietro. Se considera il pesce catturato in mare, la Cina fa da sola il 15%, seguono Indonesia (7%) e Perù (7%), l’India (6%), quindi Russia (5%) e Stati Uniti (5%).
Ma cosa viene pescato?
Il pesce più pescato del mondo è l’acciuga del Pacifico, seguita dal merluzzo d’Alaska e dal tonnetto striato.
La Cina giganteggia anche nel settore dell’acquacoltura: l’agricoltura del mare è ormai la realtà più importante per l’uomo, nel 2018 ha prodotto 82,1 milioni di tonnellate di pesce, ma se si considerano 32,4 milioni di tonnellate di alghe e 26 mila tonnellate di conchiglie e perle ornamentali, si arriva a un totale del settore di 114,5 milioni di tonnellate di prodotto in un anno. Ma che pesce viene “coltivato”? In realtà soprattutto pesci d’acqua dolce (carpe, barbi e simili, ma anche pesci gatto e altro), nel settore rientrano però anche crostacei e molluschi. I più celebri salmoni, trote e gamberi sono il 3,11% del peso pescato globale nell’acquicoltura, ma l’8,94% in termini di valore.
Problemi immani, dal clima alle risorse limitate
Tutti numeri giganteschi. Ma sono enormi anche i problemi che confluiscono nel mare. Intanto l’equilibrio globale. Almeno l’83% del ciclo del carbonio globale passa dagli oceani. Parliamo dunque del pilastro dell’equilibrio climatico globale. Gli ioni bicarbonati sono il passaggio essenziale per un sistema fondamentale, quello di tutte le creature, come coralli e molluschi, che usano carbonati e calcio per i loro gusci. L’aumento oltre 415 parti per milione dell’anidride carbonica in atmosfera, un livello che non si vedeva da 800 mila anni nel Pianeta e potrebbe essere incompatibile con equilibri essenziali per il genere umano, sta acidificando gli oceani, attaccando direttamente le barriere coralline che ospitano un quarto della biodiversità marina. Dal fitoplancton degli oceani proviene inoltre dal 50 all’80% dell’ossigeno prodotto sulla Terra. Ancora oggi dal mare la vita.
Gli oceani nel frattempo muoiono, la vita che li popola si impoverisce. La domanda cresce, il sistema diventa un’industria e produce scarti e impatti insostenibili. In poco più di 30 anni, dal 1990 a oggi, il consumo globale di pesce è cresciuto del 122% Incomprimibili fattori demografici e spinte sociali e culturali sembrano spesso fuori controllo. Secondo la Fao, il consumo di pesce è passato da 9 kg a persona l’anno nel 1961 (media globale) a 20,2 kg nel 2015, una crescita che nello stesso periodo ha esattamente raddoppiato quella della popolazione: +3,2% di consumo di pesce l’anno contro una crescita media della popolazione dell’1,6% l’anno nel periodo. La domanda di pesce in oltre mezzo secolo ha battuto per crescita tutte le carni (+2,8%) complessivamente e per tipo, con l’eccezione del pollame (+4,9%). Da anni ormai la sostenibilità dell’economia del mare, la blue economy, è in dubbio.
Un decimo del pescato ributtato in mare e le risorse si impoveriscono
Dati recenti calcolano che 9,1 milioni di tonnellate di pescato siano ributtate a mare ogni anno, ma sono cifre con un 95% di margine di errore, potrebbero insomma essere 7 o persino 16 milioni di tonnellate, in media si stima circa un 10,8% del pescato complessivo, ossia più di un pesce su dieci finito nelle reti che viene ributtato a mare, un delfino, uno squalo, una manta, un pesce senza valore di mercato. L’evoluzione del mercato ittico ha seguito queste triste percentuali passando da Stati Uniti, Canada ed Europa nel Nord Atlantico prima degli anni Ottanta ai più recenti discard (questo il termine inglese) nel Pacifico nordoccidentale: la Russia ne copre più della metà, seguita da Giappone, Corea del Sud, Thailandia e Vietnam. Atlantico e Pacifico hanno volumi che rendono ancora oggi trascurabili i rigetti del resto del mondo (Mediterraneo compreso).
Flotte di pescherecci in crescita e il problema strutturale dell’illegalità
Le dimensioni e la capacità di cattura dei moderni pescherecci industriali sono cresciute in maniera impressionante negli ultimi anni. La flotta globale di pescherecci si stima sia passata da 1,7 milioni di vascelli nel 1950 a 3,7 milioni nel 2015. I volumi del pescato segnano una crescita massiccia e, anche se la maggior parte della flotta è composta di piccoli pescherecci, esistono vere industrie del mare galleggianti. Nel 2018 fu sequestrato Damanzaihao, la più grande industria ittica galleggiante, un vascello capace di lavorare 547 mila tonnellate di pesce l’anno. Un caso che illumina il problema pressoché strutturale della pesca illegale. Per il problema esiste una sigla internazionale riconosciuta da Onu e FAO, ossia IUU (Illegal, Unreported, Unregulated), in pratica la falange armata della gestione insostenibile del mare.
Comprende di tutto, dalle battute di pesca illegali perché condotte in acque nazionali senza permesso, in violazione delle norme (anche le più elementari) sui metodi di pesca, perché effettuate da vascelli senza bandiera o in aree vietate. Naturalmente non manca l’unreported, il pescato non dichiarato magari perché effettuato oltre le soglie consentite (ma non solo).
Un coacervo di irregolarità, anche pericolose sotto il punto di vista alimentare, che rende illegale un quinto del pesce che finisce sui banconi di tutto il mondo. La Poseidon Aquatic Resource Management e la Global Initiative Against Transational Organized Crime hanno persino creato una mappa globale aggiornata: l’IUU Fishing Index. Si stima che abbia causato la perdita di fino a 26 milioni di tonnellate di pesce l’anno, fra i 10 e i 23 miliardi di dollari. Come tutte le attività criminali il beneficio d’inventario è d’obbligo. Ma che la pesca mondiale diventi ogni giorno più insostenibile è innegabile.
Più di un terzo del patrimonio ittico globale sotto la sostenibilità biologica
Certo la stima di oceani “vuoti” di pesce entro il 2048 si è rivelata inaccurata e forse inverosimile, perché dal 2006 – quando emerse - a oggi le cose sono un po’ cambiate e anche gli stock ittici si sono dimostrati capaci di ricostituirsi più velocemente del previsto.
L’emergenza per la Blue Economy però non è finita.
Nel 1990 il 90% del patrimonio ittico era inserito tra livelli di sostenibilità biologica, già nel 2017 questa percentuale era precipitata al 65,8% È un problema globale che trova uno specifico riferimento tra gli obiettivi di sostenibilità dell’Onu: l’SDG 14 e in particolare l’indicatore 14.4.1 che rileva la percentuale di stock ittici entro livelli biologicamente sostenibili. Su questo fronte il Mediterraneo vive purtroppo ancora ben al di sopra delle proprie capacità: nel 2017 il 90,7% degli stock ittici del Mediterraneo Occidentale era in condizioni di sovrasfruttamento.
C’è però un impoverimento globale che si articola e differenzia nelle varie aree del mondo, ma è costante e quasi inesorabile. Un articolo dell’Accademia Nazionale delle Scienze degli Stati Uniti dal titolo “L’evoluzione delle flotte marittime globali e la risposta delle risorse ittiche” impiega l’unità di misura CPUE (il tasso di cattura per unità di sforzo in Kw/giorni, ossia il pescato in rapporto all’energia impiegata) una sorta di indicatore del costo dello sforzo energetico della pesca. La sintesi è imbarazzante: “Il tasso di cattura per unità di sforzo CPUE nella maggior parte dei Paesi si è ridotto nel 2015 a un quinto dei valori del 1950 e si confronta con il declino globale delle risorse ittiche”. Pescare un pesce chiedeva insomma nel 2015 cinque volte l’energia richiesta nel 1950, è aumentata la percentuale di imbarcazioni motorizzate, ma è anche enormemente diminuita la consistenza dei banchi di pesce.
L’impoverimento è generale, la più nota mappa degli stock di pesce stimati nel mondo, la Ramlegacy mette in rosso la costa orientale dell’America del Nord sostanzialmente dalla Florida alla Groenlandia, male anche il Giappone, il Sudamerica, l’Oceano indiano e la costa occidentale del Canada, male anche il Mediterraneo e il Mar Nero. Ma sono dati da studiare in dettaglio per capire le singole realtà, anche se l’impoverimento generale è innegabile, tanto che, come detto, più di un terzo del patrimonio ittico globale è sotto i livelli di sostenibilità biologica.
Gli sprechi crescono con le dimensioni del mercato: è ancora la FAO a calcolare che il 35% circa del pesce viene perso o buttato (sia pesca che acquacultura). Più di un terzo!
Non solo sprechi e prede, c’è anche l’inquinamento
Il National Geographic calcolava nel febbraio del 2019, prima della pandemia, almeno 5.250 miliardi di pezzi di plastica negli oceani, almeno 269 mila tonnellate galleggianti sulla superficie del mare, circa 4 miliardi di microfibre plastiche per chilometro cubi negli oceani profondi. L’emblema globale di questo assedio è il Great Pacific Garbage Patch, detto anche il Vortice di spazzatura del Pacifico (Pacific Trash Vortex): una zuppa di polimeri da 87 mila tonnellate che copre una superficie di circa 1,6 milioni di chilometri quadrati, circa 3 volte la Francia. Di questa enorme massa di plastica (ma ci sono 5 aree oceaniche nel mondo dove le correnti la raccolgono), quasi il 50% è costituito da reti o resti di reti da pesca, quindi da trappole per gli animali marini (ma anche per cetacei e uccelli) che vagano, a volte anche per decenni nelle acque fino a sciogliersi in micro e nanoplastiche che poi vengono ingerite e ci finiscono infine nel piatto. Un celebre studio della Fondazione Ellen MacArthur con McKinsey ha stimato che di questo passo nel 2050 ci potrebbe essere nel mare più plastica che pesce. Le stime parlano di 400 milioni di tonnellate di plastica prodotte ogni anno (più del peso fisico di tutta l’umanità) di cui un milione di tonnellate dai fiume finisce nei mari. Ogni anno. E si potrebbero aggiungere i problemi giganteschi del mercurio e dei pesticidi, che minacciano la salute umana e gli ecosistemi. Anche il cambiamento climatico minaccia stravolgimenti ancora difficili da misurare, ma che sicuramente avranno un impatto sull’equilibrio delicato degli oceani e anche sulla Blue Economy.
Senza un’azione coordinata e globale molto presto potrebbe essere troppo tardi.
Giovanni Digiacomo