Giovanni Digiacomo intervista Pietro Jarre, promotore della Corporate Digital Responsability, da qualche mese sostenitore del nostro progetto Walls Down.
LA CDR, nata in parallelo alla CSR, coinvolge tutta la vita di una azienda e le opportunità che offre non sono solo su ambiente e sociale…
I nuovi doveri dell’impresa non potranno che essere anche digitali. Da due anni affrontiamo una pandemia che ha radicalizzato il nostro ricorso al digitale, accelerando tendenze precedenti e rivelando nuove opportunità e rischi. Ci interroghiamo da tempo sui pericoli di smartphone che registrano costantemente i dati principali della nostra vita, di algoritmi dalle richieste insostenibili che portano alla rivolta i corrieri o decidono di assunzioni e licenziamenti. Le domande del presente hanno a che fare con gli obblighi di social network che spesso radicalizzano ogni dibattito a scapito della democrazia, o con l’impatto ambientale dell’estrazione di bitcoin che già consuma ora poco meno energia dell’Olanda. Secondo l’IEA il cryptocurrency mining ha consumato circa 100 TWh nel 2020: se si aggiungono i 200-250 TWh di tutti i data center del mondo e i 260-340 TWh delle reti di trasmissione dati, il costo totale del web non è inferiore al 3% dell’energia elettrica globale e certamente aumenta in modo esponenziale. Inevitabile porsi la domanda: esiste una responsabilità digitale delle imprese?
Pietro Jarre, imprenditore ed ex consulente in campo ambientale di diverse multinazionali, da anni si dedica alla promozione dell’uso responsabile del web (Sloweb) e delle tecnologie, anche con piattaforme come MailRake, eLegacy ed eMemory, è un promotore della CDR (Corporate Digital Responsibility). Ci illustra questo nuovo approccio che cerca di porre una bussola qualitativa in un deserto quantitativo spesso simile a un far west – lui parla di World Wild West, scherzando sul World Wide Web.
L’emergere del concetto della CDR è importante per le imprese che vogliono avere un impatto sociale e sono guidate da una purpose specifica, perché la responsabilità digitale non è “una cosa buona e bella da avere in più”. È invece un elemento chiave della identità di un’impresa che voglia contare, voglia esistere non solo per i propri azionisti, ma per tutti gli stakeholder, in primo luogo per cambiare in meglio la società. È inoltre un elemento di competitività, che può aiutare l’impresa a conquistare stabilità e più mercato, a fare più profitto!
Pietro Jarre
L’acronimo CDR ricorda da vicino la CSR, la corporate social responsibility, che si declina in finanza con le tre dimensioni della responsabilità d’impresa nell’ambito ambientale, sociale e di governance…
C’è la tensione verso obiettivi di miglioramento e di trasparenza della società, come nella CSR, ma se possibile in modo ancora più ampio, perché il “digitale” non è una tecnologia, non è un settore, non è soltanto un modo di comunicare, ma è un ambiente intero, per citare Luciano Floridi, è quindi tutto il mondo di domani, che noi imprese purpose driven vogliamo e pretendiamo migliore del mondo di oggi, impegnandoci perché questo accada. Dobbiamo però ribaltare i rapporti di forza per farlo, passare da un primo tempo di partita, in cui l’industria produttrice di servizi e prodotti digitali dominava gli utenti, i territori e le istituzioni stesse, a un secondo tempo in cui gli utenti si alzano e diventano cittadini, le istituzioni e i politici tornano a governare, a indicare visioni future e direzioni per arrivarci.
Già soltanto delimitare la responsabilità digitale delle imprese nel mondo di oggi appare arduo, come possiamo definire questo insieme di nuovi doveri?
Per fissare le idee, riferiamoci alla definizione di CDR che ne ha dato Lobschat, di cui parliamo dopo’: la CDR è l’insieme di valori e di norme che guidano una organizzazione nella creazione e/o nell’uso di tecnologie digitali e di dati. Il riferimento specifico è a ciò che fanno le ‘corporation’, aziende pubbliche e private, di servizi ma non solo, che producono tecnologie e servizi (“sistemiche” come Apple o piccole come start up) o semplicemente li usano. Tutte le imprese ormai creano e manipolano insiemi di dati e sono quindi interessate dal potenziale offerto da una esplicita politica di responsabilità digitale che riduca i rischi e aumenti la capacità di catturare buone opportunità di business. Più opportunità e meno rischi, lo sappiamo, significa più profitto, più stabilità, più efficacia, come detto, e ribadisco: non parliamo di una cosa bella da fare, ma del business, it’s the business, bellezza!.
Qualche esempio concreto?
Ce n’è a bizzeffe. Interessano tutto il ciclo che riguarda prodotti e servizi digitali: progetto, produco, distribuisco, imparo, miglioro e, se non posso riciclare, rottamo (hardware, di certo, e non è un piccolo problema e ne parlano finalmente molti; ma anche software e dati… la questione di quanto e cosa trattenere – la data retention – è una questione etica fondamentale, ho descritto tempo fa cosa dovrebbe essere un ecological use of digital data, come fossero rifiuti da gestire meglio). Nella progettazione di servizi, ci si deve chiedere se e non solo come si progetta. Norberto Patrignani – insegnante di computer ethics, un ex Olivetti non a caso - lo insegna ai suoi computer developers: chiedetevi se dovete progettare, non basta che si possa fare, chiedetevi se è etico farlo. I progettisti di Tik Tok si sono fatti questa domanda? E quelli di Candy Crash?”! Nella produzione, ci si deve chiedere come ridurre al minimo i dati raccolti (la retention dei dati) e l’energia utilizzata. È facile produrre servizi belli con luci e cotillons, la vera sfida è creare un bell’ambiente usando pochi Watt! Nell’industria manifatturiera CDR significa produrre solo i dati indispensabili, non quelli che un giorno potrei rivendere ad altri, magari trasformando un’industria che produce auto o lavatrici in un broker di dati.
Perché la mia auto sa dove sono stato e non solo i chilometri che ho percorso? Perché la chiave raccoglie a mia insaputa dati GPS? CDR a mio avviso significa che se quella casa automotive mi vende una macchina che mi spia, come minimo me lo deve dire, e appunto chiedersi SE deve fare questo. Nell’epoca del monitoraggio forse dovremmo usare pochi sensori, ma quelli giusti. Metterne troppi spesso significa nascondere il dato o persino palesare una mancata comprensione del problema. Sul Ponte Morandi sarebbe servito un solo sensore sui tiranti affaticati, non i mille sulla pavimentazione in asfalto. L’impiego massiccio e acritico di sensoristica e dati è spesso antiscientifico, produce rumore di fondo e in certi ambienti favorisce le fake news. La CDR chiede invece mano leggera, decluttering, un monitoraggio frugale, rispettoso di individui e di modelli fisici e concettuali di società, di fenomeni climatici e visioni future.
Ma se la CDR, come la CSR, punta a imprese purpose driven e a molto altro in maniera trasversale, possiamo forse tentare di porle degli obiettivi in ambito ESG. Quale potrebbe essere per esempio il suo contributo in ambito ambientale? È vero che dai guasti della tecnologia si può uscire solo con la tecnologia stessa?
Premetto che non sono un cantore dei fasti tecnologici di questa epoca acritica. La tecnologia recente è stata molto poco utente/uomo–centrica. Ha portato con sé vecchi miti molto discutibili: ciò che è possibile tecnicamente si deve provare a qualunque costo, la tecnologia ci salverà… A guardare bene questo uso acritico da vitello d’oro porta alla promozione del conformismo, della disuguaglianza, e rende persone e comunità molto meno resilienti: tutti sempre meno capaci di affrontare le diversità, riflettiamoci, se il digitale non è usato bene, riduce la resilienza delle comunità, con buona pace del PNRR. Sull’ambiente questo tipo di responsabilità potrebbe avere risultati significativi: pensa anche solo al riuso dell’hardware utilizzato da corporations e pmi da parte di comunità locali e svantaggiati. Alla produzione di Fairphone e non iPhone, cioè di oggetti che si possono riparare (secondo la recente direttiva UE sulla riparabilità). I CIO delle aziende possono scegliere app e sistemi di calcolo e di storage dei dati in base a criteri di consumo energetico. Le imprese possono scegliere di monitorare con frugalità, come detto, di trattenere soltanto i dati indispensabili e cancellare il superfluo con un risparmio di impatto ambientale, riduzione di rischi e non solo. Ma per inciso lasciami dire che la dimensione energetica è oggi quella più di moda, è certo importante, ma forse non è la più importante…
A cosa pensa allora?
Alla dimensione sociale, dove la sfida è enorme, e come sempre il digitale può aiutare molto il progresso, oppure ostacolarlo, secondo le scelte che operiamo. A mio avviso le imprese possono fare molto … per esempio si dovrebbe scegliere di non produrre mai armi autonome, algoritmi black box, e così via, ma anche di produrre software verificandone sempre l’impatto sociale presso i gruppi fragili, compreso il danno alle capacità di resilienza degli utenti. Bisognerebbe privilegiare i fornitori che si impegnano con noi in politiche di sostenibilità, in difesa ad esempio dell’inclusione dei loro lavoratori. Dovremmo impegnarci a non raccogliere dati non indispensabili dei nostri lavoratori, a raccogliere e usare il feedback degli utenti per migliorare prodotti e servizi in termini di equità, inclusività e rispetto della diversità”, come indica il recente Digital Service Act”. Do per scontato quanto riguarda violenza, discriminazione, e comportamenti illegali, ma purtroppo non sempre possiamo farlo, e le imprese devono rimanere vigili anche in questo senso, parlerei di CDR punto zero.
In termini di governance il digitale può portare anche un monitoraggio sano delle performance sostenibili di un’impresa, promuovere scelte strategiche più sostenibili e una maggiore trasparenza sugli impatti dell’attività di impresa…
È vero, ed è importante connettere la politica della impresa con visioni ampie per la società. Per quanto vedo e so, c’è una visione di CDR più legata alla ricerca sulla organizzazione di impresa – Lobschat e altri nei paesi di lingua tedesca – e una più legata alla esperienza ESG – Rob Price e altri, in quelli e non solo. Entrambe però sembrano alludere a un’impresa che tutta da sola indica la visione di una società migliore. Io non credo né possibile, né opportuno che questo si verifichi. Le imprese, come i cittadini, devono chiedere alla politica di dare questa direzione, questa visione. Da questo punto di vista, ci aiuta l’Unione Europea. L’UE ha già piazzato nel firmamento, dove nel primo tempo della partita era solo il buio, qualche faro che indica direzione, alcuni “atti”, quali il Digital Service ACT, il GDPR e non solo. La stessa UE però stenta ancora ad avere una “visione politica comune” in questo campo. I partiti politici nazionali sono ancora più indietro, non solo in Italia. Guardando a cosa successo nell’ESG, possiamo però esser ottimisti, e contare sull’intervento positivo di settori e gruppi dell’industria che con la CDR possono senz’altro dare il loro contributo. Ci vuole un mix di politiche top down (istituzioni, norme, regole) e bottom up (cultura aziendale, informazione, associazionismo). Un mio sogno è di vedere nascere, come 50 anni fa nel campo delle infrastrutture, una procedura di valutazione preventiva dell’impatto – sociale, economico e ecologico – per ogni prodotto e servizio della industria digitale.
Ci sono esperienze virtuose in Italia?
Penso che la cultura aziendale italiana possa aggiungere non poco alla evoluzione della CDR, valorizzando per esempio l’esperienza delle imprese ad impatto sociale, del movimento cooperativo, delle Bcorp e non solo. Potremmo sviluppare un digitale a impatto sociale positivo anziché negativo. Partendo dalla misura pratica di questo impatto. Le prime a guadagnarci sarebbero le stesse imprese.
Perché? C’è un potenziale vantaggio economico della CDR?
Senz’altro. In una multinazionale di ingegneria in cui lavoravo, misuravamo la soddisfazione dei dipendenti per ridurre il costo del turn over e perché avevamo scoperto che anticipava di 3 o 6 mesi le performance aziendali, era un leading indicator. Io credo che una buona CDR contribuisca a costruire un’impresa di forte leadership e spiccata purpose, un caso esemplare di riferimento cui i clienti sono più affezionati, gli impiegati più fedeli, gli azionisti più interessati. Una buona CDR fa gestire meglio dei concorrenti opportunità e rischi, quindi la società fa profitti più alti e più stabili.
Giovanni Digiacomo
*UPDATE*
Il video del rpimo evento italiano sulla CDR tenutosi il 21 aprile presso le Officine ICO.