Smart Working, la sfida del nuovo significato del lavoro

20/11/2025

Il Quinto Ampliamento avvia una riflessione profonda sulla nuova cooperazione ibrida, fra rischi di frantumazione sociale e ricerca di nuove forme di appartenenza

Gli spazi ex Ansaldo della Cariplo Factory hanno accolto a Milano una nuova sfida del Quinto Ampliamento: un viaggio di ricognizione sul lavoro e sulla dimensione identitaria delle organizzazioni. Con una domanda difficile al principio di tutto: identità in frantumi o nuova appartenenza?

L’analisi di esperti, il tavolo con vari attori del nuovo lavoro, i casi virtuosi di Professional Link e Banca Etica sono riusciti così ad attivare un campo di riflessione dalle profondità inattese.
Con la guida di quella ricercatrice inesausta di significati che è Myriam Ines Giangiacomo (Bottega Filosofica) e l’attento accompagnamento di Alberto Zambolin (Message), il nuovo delicato equilibrio tra vita privata e lavorativa è passato attraverso il setaccio dell’analisi teorica, dell’esperienza personale, delle risposte concrete di impresa e si è rivelato complesso, articolato, sfidante, forse più delle attese.

È emersa così con tutto il suo peso la richiesta di nuovi modelli, la discussione sui valori fondanti della società e sugli equilibri delle organizzazioni, un impellente bisogno di nuove ricette e proposte per trovare un bilanciamento nuovo tra la dimensione personale e lavorativa dell’individuo nelle organizzazioni perché – ormai è chiaro – dopo il Covid niente sarà più come prima.

Si fa presto a dire comunità

Marco Aime, antropologo culturale e professore all’Università di Genova, ha regalato una prima struttura al dibattito spazzando via il campo da alcune persistenti ambiguità sui concetti cardine di comunità e identità: sono costruzioni dinamiche e mobili, che rispondono all’esigenza relazionale degli esseri umani, a quel bisogno imperterrito della tradizione di (re)inventare quello che ci serve oggi.

Se così è, i meccanismi dell’integrazione diventano vitali in una società in trasformazione per garantire l’evoluzione delle comunità umane verso un adattamento continuo e scongiurare la loro dissoluzione per inadeguatezza al contemporaneo.
Non è teoria, ma la bruciante attualità delle periferie multietniche o delle corporation multinazionali, insieme alla scoperta del lavoro come fondamentale meccanismo di integrazione sociale.

Gli impatti del nuovo lavoro agile

Non mancano le sfide, le criticità spesso prive di una risposta condivisa. Massimo Miglioretti, professore di Psicologia del Lavoro e delle Organizzazioni e direttore del Bicocca Center for Applied Psychology, aggiunge alcuni importanti spunti di riflessione, tra postulati e interrogativi.
L’organizzazione del lavoro ha portato oggi una forte individualizzazione: la maggior parte delle tecnologie, dall’AI agli esoscheletri ai cobot, sono concepite per un uso singolare e questo cela dei pericoli.
Il lavoro ibrido, misto di prestazioni in presenza o da remoto, è un modo di lavorare e quindi interpreta con caratteristiche proprie le dimensioni dello spazio, come le nostre case che non erano nate per lavorarci, e del tempo, con quelle flessibilità che possono diventare risorsa o minaccia a seconda dei casi.

Anche l’organizzazione registra degli impatti. I quadri intermedi subiscono una forte scossa dal lavoro ibrido, bisogna sviluppare nuovi tipi di leadership capaci di sintonizzarsi con i dipendenti anche quando sono ‘altrove’.
La nuova fiducia e la nuova autonomia richieste al lavoratore agile pretendono nuovi approcci e l’ibridazione finisce per distruggere la routine, con un ampio ventaglio di conseguenze: dallo spaesamento alla distruzione creativa, fino alla fatica cognitiva.
Storicamente la ritualità, una ripetizione di gesti e situazioni, creava la rappresentazione della comunità e quindi un senso di appartenenza fondamentale per la società.

In un mondo di ritmi e processi parcellizzati e frantumati cosa ne rimane? Possono servire la riprogettazione identitaria degli spazi aziendali o la costruzione artata di occasioni di incontro per ricreare quella relazione minacciata?
Come salvare quella pausa caffè in cui si scopriva l’altro e si sperimentava l’inatteso fuori dai processi intenzionali?
Come salvare la ricchezza delle comunicazioni non verbali dalla sequenza anonima e omologante di call a telecamera spenta?

In gioco c’è molto, moltissimo, soprattutto per i giovani, sia la generazione Z, che non ha conosciuto il lavoro in presenza come era prima del Covid ed è entrata nei modelli produttivi quando già si disarticolavano nelle forme ibride attuali, che per la generazione Y, che ha appena fatto in tempo a farsene un’idea.
Marta Ripamonti, che si occupa di comunicazione in Professional Link, reclama il diritto dei giovani di interrogare le organizzazioni che cercano nuove risorse. È opinione condivisa che un purpose, uno scopo, un set di valori solidi che contribuisca alla struttura dell’impresa, possa essere una risorsa preziosa per articolare il rapporto tra il lavoratore e l’organizzazione, ma le sfide non mancano.

Francesca Farinon, che si occupa di sostenibilità in Message, chiede un mix più virtuoso tra i benefici del lavoro agile e quelli del lavoro in presenza. La riscoperta del valore sociale del lavoro, per la crescita della persona, della sua identità, è essenziale e nel contesto attuale non è scontata, anzi.
Lorenzo Giraldi, data scientist di Olivetti della generazione Y, denuncia che per i giovani spesso precarietà e scarso potere di acquisto si possono tradurre in mancanza di prospettive, in sfiducia nelle organizzazioni. Solo in parte i valori condivisi, il credere assieme nelle finalità dell’impresa, possono riequilibrare il sistema.

Il lavoro agile ci ha protetto durante una pandemia e ha inventato un nuovo bilanciamento tra vita personale e lavorativa, ma ha anche generato o amplificato altri pericoli.
Ne prova a fare una sintesi l’antropologo Leonardo Menegola (Docente presso eCampus, Dipartimento di Scienze Umane e Sociali). Con lo smart working si rischia l’amputazione emozionale-relazionale.
I modelli di assemblaggio e collaborazione rischiano di soppiantare quelli basati su cooperazione e interdipendenza, scalzando in altre parole quel valore profondamente umano del ‘fare assieme’ (e assieme risponderne). Ma c’è anche il rischio di burnout, che è emerso prepotentemente nelle statistiche sull’aumento delle ore lavorate, e anche il pericolo della ‘digitalizzazione escludente’, ossia di quel ‘lost in translation’ che la call anonima, così come la mail, possono generare, amputando segnali non verbali, sfumature e messaggi non rigidamente codificabili con la tecnologia. Una mutilazione che rischia di passare anche dalla difficoltà di essere nel lavoro, di esistere nell’organizzazione, prima ancora che di raggiungere nei suoi percorsi il benessere.

Prima di arrivare all’estremo dell’hikikomori giapponese, che si isola digitalmente dalla società, o alla sindrome della capanna, che si traduce nell’angoscia di lavoratori che non riescono ad affrontare gli spazi sociali esterni alla propria zona di comfort, tutta un ventaglio profondamente umano di ricerche di significato e appartenenza nel lavoro ci interroga su un equilibrio in profonda mutazione.

Il Quinto Ampliamento mette in gioco infine anche i percorsi virtuosi e le esperienze di Banca Etica e Professional Link. Strade possibili, casi concreti, ipotesi di lavoro sulle nuove sfide dell’inclusione e della cooperazione che sembrano oggi a Milano drammaticamente attuali.


Giovanni Digiacomo